Vorrei fare un paio di riflessioni sulla carriola. O meglio, su modo in cui sono arrivato alla carriola come strumento-non-strumento e quindi alla carriola preparata di oggi.
La carriola è comparsa, non ricordo bene quando, in ogni caso prima del 2012, nei Bancale, gruppo rock con tendenze avant-blues composto da me alla voce, Alessandro Adelio Rossi alla chitarra e Fabrizio Colombi alla batteria, una batteria che invece dei piatti aveva delle lamiere. Il mio compito era quello di scrivere i testi e dirli (insomma non cantavo). Un giorno mi venne in mente che poteva essere interessante portale sul palco nei live una carriola – che non c’è nei dischi dei Bancale (l’ultimo “Frontiera” potate ascoltarlo qui) – percuotendola in modo abbastanza violento con dei bastoni di legno comprati in un negozio di bricolage, il tutto spesso amplificato da un microfono ambientale che stava sopra l’oggetto. La carriola usata nei Bancale non era – come del resto quella che uso oggi – una carriola nuova, ma vecchia, usata, con dei rimasugli di calcestruzzo e polvere al suo interno: con gli anni ho imparato che le carriole vecchie e usate suonano meglio di quelle nuove, spesso di metallo e plastica.
Uno strumento “apotropaico”
La carriola sul palco, percossa non sempre a tempo (perché non ho un grande senso del tempo, probabilmente a causa dei problemi di coordinazione dati dalla mia malattia) o grattata con una spatola, diventava una sorta di strumento rituale e “apotropaico”, che dava una certa soddisfazione al pubblico e anche a me, una soddisfazione catartica dentro il suono bellissimo generato da Alessandro e Fabrizio.
In sé la carriola, per un gruppo che nasce e cresce nella provincia di Bergamo, è un oggetto comune (magari più comune un tempo che oggi, quando eravamo bambini) e in qualche modo didascalico, secondo quell’immagine tipica del bergamasco muratore, per cui è più semplice costruire un muro con cazzuola e cemento che parlare in italiano. Utilizzarla sul palco, però, significa da un lato decontestualizzarla (il palco non è il cantiere), ma dall’altro mantenerne il disagio (del lavoro, della fatica, citando Pavese: del mestiere di vivere) percuotendola con violenza e sfogo.
Ora, sto teorizzando molto questa introduzione della carriola nel set dei Bancale: a dire il vero fu una cosa molto istintiva e spontanea, suonata da una persona che di fatto non sa suonare, e usata solo in certe canzoni in cui in qualche modo ci stava.
Chiamata
In realtà a volte ho l’impressione che non fui tanto io a scegliere di percuotere e grattare la carriola, ma fu lei – grazie soprattutto al contesto e all’immaginario provinciale e metafisico dei Bancale – a chiamarmi. In un certo modo la stessa cosa successe con Eraclito, che non avevo mai letto e a cui un giorno iniziai a pensare ossessivamente, scegliendo di leggerlo per intero e di leggere alcuni saggi che disegnavano un quadro del filoso greco e davano diverse interpretazioni: così nacque la raccolta di poesie “Fuoco prendi tutto”, una serie di testi che partivano proprio dai frammenti dell’efesino giunti a noi e li completavano, tradendoli o no a piacimento, e delineando una mia personale visione del mondo che conteneva anche alcune risposte alle tante domande di senso (sul dolore, l’amore e la morte, prima di tutto) che fino ad oggi mi sono fatto.
Entrambe insomma furono una specie di chiamata, che ovviamente non ha nulla di religioso, ma riguarda il proprio orizzonte immaginifico e il bisogno di cui ho appena detto, svolti in modi decisamente diversi. Eraclito e la carriola peraltro si ritrovarono nell’unico concerto-performance che fino ad oggi ho fatto con la carriola, nel luglio 2022 al Bikefellas di Bergamo per il festival Clamore. L’esecuzione si apriva e chiudeva con dei versi di Eraclito. Rivisto oggi, quello è stato una sorta di punto e a capo nel mio rapporto con la carriola. Prima di continuare nella riflessione, occorre però fare un passo indietro.
Artigiani sonori
Dopo la fine dei Bancale (intorno al 2012, se non sbaglio), mi ritrovai a lavorare ad un disco, un concept-album sul mal di testa (disturbo che conosco molto bene), con Enrico Ruggeri. Enrico, che ha un passato molto rispettabile nel indie-rock con gli Hogwash, negli anni è diventato un grande musicista e un artigiano del suono – ho avuto la fortuna di lavorare sempre con musicisti/artigiani sonori molto personali e disponibili ad avventure sonore non canoniche – e insieme decidemmo di fare un disco di elettronica quasi interamente analogica e strumenti autocostruiti, “White Out”, del 2016 (potete ascoltarlo qui). Da Enrico, come dall’esperienza coi Bancale, ho imparato molto (aspetti tecnici, invenzioni sonore inaspettate, curiosità e voglia di andare sempre oltre e altrove) e molto mi è servito per quello che ho fatto dopo, cioè costruire la mia carriola preparata.
Ho iniziato a lavorare sulla e con la carriola preparata più di un anno fa, con alle spalle l’esperienza nei Bancale, nei Barachetti/Ruggeri (così si chiamava il progetto con Enrico) e la visione nei musei europei di tanta arte novecentesca e contemporanea – non tutto mi ha influenzato, ma fondamentali sono stati Lucio Fontana, Alberto Burri, Joseph Beuys, il movimento Fluxus e quello dell’Arte Povera: sono le prime cose che mi vengono in mente, quindi sono forse le più importanti. Fondamentale è stato, qualche anno fa, anche l’incontro con il danzatore e coreografo Virgilio Sieni, da cui ho imparato il senso del rigore, l’apertura verso il possibile, la profonda umanità della sua danza. Essendo un fruitore di cultura abbastanza vorace (letteratura, musica, cinema, danza e quant’altro) le influenze che mi hanno spinto verso la carriola preparata sono molte, per chiudere citerei quella del violinista e scrittore di canzoni Michele Gazich, che mi ha trasmesso tante cose, fra cui una frase che cito a memoria ma che so di non tradire: la radicalità è sempre feconda.
La carriola che uso oggi, però, non è quella che usavo nei Bancale, perché quella negli anni dei Barachetti/Ruggeri è stata temporaneamente archiviata e ha preso molta ruggine, diventando meno solida di un tempo, meno utilizzabile e un po’ pericolosa a causa di alcune parti diventante taglienti. La carriola che uso oggi mi è stata gentilmente regalata da un’amica di famiglia, era la carriola del marito scomparso molti anni fa, ed è bello che dando a me questa carriola – segno di lavoro e fatica – abbiamo ripreso vita, seppur in modo totalmente diverso da quello originario.
Come un virus
Ho definito la carriola uno strumento-non-strumento, ma forse la definizione è imprecisa, perché, a parte gli aspetti percussivi, la carriola non produce note, accordi e quindi possiamo dire nemmeno timbri nel senso comune del termine. Infatti essa suona in modo diverso a seconda di dove la si tocca e lavorandoci ho notato che con il tempo (quello che passa e quello atmosferico) cambia suono, o meglio cambia rumore – perché ciò che produce è la maggior parte delle volte puro e vivissimo rumore.
Quindi la carriola, pur essendo un essere non vivente, è viva e in evoluzione, come un virus. E come un virus stabilisce un rapporto con un corpo vivente. In altre parole abita un corpo umano, il mio.
Un oggetto sonoro non-umano
Tirate le somme di tutto ciò che ho descritto fino ad ora, arriviamo alla conclusione che la carriola non è uno strumento, ma un oggetto sonoro. Un oggetto sonoro non-umano. A differenza ad esempio della chitarra – che per la sua ergonomia adattata al nostro corpo e per la capacità di produrre suoni intonati come quelli che può produrre l’homo sapiens – è uno strumento musicale umano. Ovviamente la carriola non è l’unico oggetto sonoro non-umano esistente: ogni cosa può esserlo, e ogni cosa, nel suono/rumore che produce ha una capacità di evocare, emozionare, dire un qualcosa che per chi ascolta può essere più o meno significativo.
Anche uno strumento musicale in verità può essere un oggetto sonoro non-umano. Succede quando non viene usato secondo il canone: tornando al nostro esempio della chitarra, quando essa viene percossa sulle corde e sulla parte posteriore oppure quando viene fatta suonare da un ventilatore (come ha fatto Enrico Ruggeri in questa e quest’altra videoperformance) diventa uno strumento non-umano, o – nel caso del ventilatore – uno strumento liminare tra l’umano e il non-umano.
Perché tutte queste riflessioni? Perché sono queste riflessioni, nate non prima delle costruzione della carriola preparata ma insieme ad essa, che mi hanno portato a realizzare questo oggetto sonoro non-umano: la carriola preparata. Ma perché preparata? Com’è scontato, il termine “carriola preparata” l’ho ripreso da John Cage e dal suo pianoforte preparato (un pianoforte il cui suono è stato modificato inserendo vari oggetti tra le corde), ma è stato importante conoscere anche il lavoro di Paolo Angeli e della sua magnifica chitarra sarda preparata.
“Fare le cose con il poco che abbiamo”
Inoltre nel concepire la carriola preparata non posso evitare di citare il filosofo Timothy Morton che nel suo libro “Iposoggetti. Sul diventare umani” (scritto a quattro mani con l’antropologo Dominic Boyer) ragiona sul concetto di bricoleur, cioè il “fare le cose con il poco che abbiamo” (cito a memoria), collegato al concetto di Iposoggetto, cioè di “soggetto dell’insignificanza”, una visione dell’uomo-nel-mondo rispetto al suo valore spazio-temporale su cui non mi dilungo troppo e che necessita ancora di riflessione.
È importante però quel “fare le cose con il poco che abbiamo” perché è ciò che ho deciso (inconsciamente) di mettere in pratica quando ho scelto degli strumenti da lavoro (bastoni di legno e ferro, spatola, pennelli, viti, bulloni, carta vetrata, tubi di gomma, nastro adesivo, fili di acciaio, ventilatori portatili, etc.) per suonare la carriola preparata, raccogliendo i suoni prodotti con due microfoni a contatto filtrati da alcuni pedali per chitarra e da un generatore di effetti sonori.
Il risultato di tutto ciò è l’esecuzione di un oggetto sonoro non-umano dalle molteplici sfumature, che sa essere ritmico ma anche “atmosferico”, rumoroso e pure “dolce”. La carriola preparata è un oggetto sonoro non umano vivo e morto insieme, capace di raccontare nella sua essenza materica in divenire tanto la distruzione quanto la generazione.
Luca Barachetti
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