Vivo per crearmi degli ostacoli sempre e comunque più alti. Un dialogo tra Paolo Saporiti e Montmasson

Montmasson: Suonare e registrare la musica oggi. Un affare per tutti. Comporre frammenti di un puzzle senza nemmeno preoccuparsi del luogo in cui la musica sta emanando la sua forza e si sta materializzando in un messaggio. Eppure per un cantautore il luogo è importante, un luogo immaginario o vissuto, solo musicale o permanente e tangibile. Tra tutti i colleghi cantautori che ho conosciuto o anche solo ascoltato, Paolo Saporiti è uno di quelli che, come la penso io, considerano la canzone come una visione di un luogo, soundtrack di una vita vissuta, una cosa più ampia di un semplice testo cantato. Noi non ci conosciamo più di tanto di persona, o meglio, a TYRSO #8, quando ospitammo Paolo Benvegnù, mi dicesti che trovavi interessante quello che facevo, ma che avrei dovuto lavorare sulla chitarra. La chitarra è uno strumento che ho amato, odiato, e ora sto tornando ad amare. Qual è il tuo rapporto con lo strumento?

Paolo Saporiti: Quando ci siamo incontrati per la prima volta ho avuto modo di ascoltare parte del tuo lavoro, quello che è stato quella sera specifica, e mi sono permesso, sulla scia dell’onestà e della verità delle emozioni dettate dal live di Benvegnù, di farti notare come – laddove ve ne fosse bisogno – un punto ulteriore di ricerca per te potesse essere il suono della tua chitarra. Forse ho soltanto percepito che dovevi ancora tornare ad amarla davvero, nel nome del processo, per vederti restituire altrettanto e affinché questo arrivasse alle persone che ti ascoltano nel profondo, a partire dalla cura per il suono della tua musica. Facevo riferimento esplicito all’amplificazione e al sistema di trasduzione del segnale. Semplicemente perché credo, da sempre, che buona parte del nostro intimo lavoro nasca e derivi proprio dalla cura con la quale trattiamo e scegliamo il nostro strumento principale. In questo caso la difficoltà enorme di tradurre in elettricità un messaggio acustico per natura. Per me tutto nasce dal rapporto fisico e armonico con lei, la chitarra, e a seguire col sistema che le permette di passare attraverso un medium, le casse. Scrivo le mie canzoni improvvisando e da lì cesello ogni aspetto vocale e corporeo, a partire dal suono della chitarra che ho scelto – e che forse mi ha scelto – da e per anni. Una delle cose più belle che mi viene detta e attribuita ultimamente è di come sembri che la mia voce nasca dal corpo, da come si muove, da come patisce, com-patisce ed empatizza con la scena. Ecco, io aggiungerei che il tessuto su cui mi appoggio per lavorare e scavare a fondo parte proprio dal terreno, dal luogo immaginifico simbolico ma reale, che la chitarra acustica sa imbastire e preparare per me, in combutta con me stesso e a mio discapito. Credo che il bello nasca proprio dai nostri limiti, quelli che ci rendono unici.  A dodici anni ho rifiutato la mia prima chitarra classica, la prima che mi è stata offerta, una Clarissa, perché non suonava come avevo in “mente”. Mi hanno deriso per questo. Non l’ho suonata più di due volte, perché non suonava come quelle che avevo in “testa”. Dopo due anni mi sono fatto regalare un’acustica. Non era quella che sognavo, ma iniziava a rispettare il mio sentire di autodidatta. Non ero nessuno, sono nessuno, magari solo un ragazzino viziato agli occhi dei più, ma sapevo che cosa volevo e che cosa stavo facendo. E questo spesso non viene capito o ascoltato dai genitori e da chi ci sta intorno. Uno dei primi errori della società: non riconoscere quanto un bambino sia vicino al proprio sentire, più degli adulti, che soltanto se vogliono possono riappropriarsi, soltanto col lavoro e con l’impegno, di tutto quello che ci viene insegnato a non ascoltare, la propria umanità. Una cosa che dovrebbe essere scontata. Appena ho potuto così sono andato in America e mi sono comprato la chitarra di Neil Young, una Martin D-41. Lui, come tutti i grandi, suonava una D-45 ma era troppo per me. E non sarebbe stato adeguato neanche per il mio super-Io, figuriamoci per quello incarnato dagli altri e a cui davo ancora tanta retta… Io non sapevo ancora fare quello che so fare ora, ma sentivo che quel poco mi bastava, per poter coltivare il sogno. E da lì non ho mai più smesso di respirare senza il supporto di una chitarra acustica a fianco, quella che amo. Il sistema di amplificazione poi è un problema vero e che va risolto con cura e con gli anni di studio e di esperimenti. A partire dagli anni ’80 si è perso molto interesse per la cosa e questo per me è già parte del problema musicale in Italia. Una spia accesa che segnala un problema. Il disinteresse per il suono e la sua qualità.

M.: Mi hai parlato un po’ dei tuoi gusti e, in ogni caso, li potrei immaginare. Non vedo affinità solo con alcuni cantautori italiani finissimi e intimi per vocazione, ma anche con un immaginario più ampio, che porta a una costruzione della musica più aperta. Scomodo dal passato un certo Roy Harper, anche se non so se c’ho azzeccato.

P.: Con l’Italia ho un rapporto complesso e difficile musicalmente parlando ma non solo. Non ho riferimenti storici e di ascolto se non tardivi (De André) e questo credo si senta in quello che faccio. Scrivo come farebbe un americano o un inglese con la chitarra in mano, perché da lì arrivo, come memoria emotiva. Non a caso scrivevo in inglese e solo successivamente ho pensato di usare la nostra lingua per assumermi la responsabilità di quello che scrivo e dico. Farlo in inglese qui, in Italia, dove nessuno capisce l’idioma al volo, toglie ogni senso ed emozione al lavoro stesso, ed è una questione di valore quella che rimane. Impoverito. Se quello che dico non viene capito, il peso di tutto quello che faccio si perde, e lo scimmiottare dei suoni certo mi farebbe ancora godere in prima persona e mi centrerebbe come poco altro al mondo, ma è quello che voglio davvero? Si risolverebbe tutto in questo? Suonare equilibrato? Non credo. Magari tra le mura di casa, ma non fuori, a contatto con gli altri. Io voglio destabilizzare, emozionare e fornire un’ipotesi ulteriore a me stesso e a chi mi ascolta. Voglio morire e rinascere ogni volta. E vorrei che capitasse anche a chi mi ascolta. A volte alcuni testi li capisco dopo anni che li ho cantati, li sento e li ascolto sotto una prospettiva che mai avevo provato prima e questo è l’aspetto meraviglioso e che crea stupore in me stesso, la benzina che ho adottato per andare avanti. Roy Harper è un mito, non uno dei miei principali, ma capisco perché ti viene in mente. Ha lavorato per anni sotto traccia, alla pari di personaggi di maggior successo e con pari talento. Citerei su tutti Nick Drake, Tim Buckley, Bruce Cockburn, Joni Mitchell, CSN&Y, Michel Hedges, John Martyn, Jackson Browne, Tom Waits, Jeff Buckley, Van Morrison. Solo per fare i più grossi. Poi viene tutto il resto, i maestri dell’oggi e del quotidiano o di qualche giorno fa, ma sempre in relazione stretta con la Storia e il Tempo di cui sono espressione ed eredità.   

M.: Hai realizzato un disco bellissimo secondo me (“La mia falsa identità, ndr), che possiamo definire ambizioso senza che nessuno ci dica che ce la tiriamo troppo. Ambire alla completezza di un disco così lungo, ricco e corposo: possono dirci che sarà magari fuori dal tempo, ma sicuramente abbraccia il mondo di chi l’ha pensato e ne mostra tutta l’identità, e il locus della musica si dettaglia a meraviglia, la percezione poetica raggiunge un insieme. Detto ciò, perchè la mia falsa identità, quando, più di ogni altra volta la tua identità mi sembra più che mai a fuoco?

P.: L’ho fatto proprio di proposito e in opposizione. Come a tirare una bestemmia. Volevo proprio parlare di questo, di come ci abbiano insegnato che l’identità è una cosa sola e unica, con dei confini ben definiti e marcati. Quello che ho scoperto vivendo invece, è che è proprio nel momento in cui ti lasci essere e permeare, ti abbandoni al molteplice e non ci metti troppa volontà nell’inseguire una forma calata dall’alto, dalle aspettative magari di qualcun altro, che quel qualcosa succede e prende vita indipendentemente da te. Quando inserisci nel tuo immaginario una variabile, un’ipotesi multiforme, succedono delle cose inaspettate. Certo è che sto parlando di un processo di consapevolezza lungo e doloroso, acquisito con gli anni di disciplina e di lavoro, spesso in solitudine. Non è una cosa immediata ma una cosa che va ogni tanto elaborata confrontandosi con dei “rallentatori di passi” – dei maestri – come dico nel disco. Qualcuno che abbia già fatto quel percorso e che possa e voglia prenderci per mano per mostrarci che ci si perde sempre per ritrovarsi e che vanno cercati ed esplorati i nostri limiti e affrontati uno dopo l’altro. La pazzia, per esempio, può essere abitata, non subita e stigmatizzata a priori. E con gli spiriti si può dialogare, non subirli o far finta che non esistano. Tutto va conosciuto e incontrato. L’Arte è fatta dell’invisibile. Ne è permeata. Fare Arte è un gioco pericoloso e totalizzante, si gioca con la morte, si cammina su un filo di lana e alla ricerca di un equilibrio in costante disequilibrio. Per questo oggi nessuno o quasi nessuno la pratica e rimane in superficie. Da anni rimaniamo tutti in superficie. Veniamo invitati a farlo. Ma dopo la pandemia per me è diventato un dovere, come l’alzare l’asticella.

M.: Tu hai pubblicato “La mia falsa identità”, io “Un’eredità”. Ci domandiamo tanto di quello che ci resta e di quello che siamo, facciamo un punto della situazione di questo mondo giocando con la poesia, con un certo ermetismo e con situazioni da decifrare. Può essere il giusto ruolo del cantautore oggi o è difficile farci capire con un linguaggio di questo tipo? A volte mi piacerebbe che qualcuno parlasse ancora di consumismo, guerra, lotta di classe, speranze, ma forse la canzone non ha più quel ruolo di un tempo.

P.: La canzone ha il ruolo che le attribuiamo noi e che richiede la società. Io credo di aver sempre parlato di quello che c’è e di quello che non c’è, con quello che faccio e quello che sono, i miei strumenti e quello che conosco. Non amo la politica e non la pratico, mio malgrado, ma so che in quello che faccio quotidianamente applico delle scelte etiche e morali che molto avrebbero a che fare con la politica. Lo stato d’animo pesante, che da fuori mi viene spesso attribuito, è solo una lettura lucida di quello che ho davanti e dentro. E quello che ho dentro parla inevitabilmente di quello che siamo diventati come uomini. Ho scelto il campo del mondo interiore, della famiglia interiore e ideale, della religione, di Dio, della coppia, dei simboli e degli archetipi, dei miti, perché tutto è mito e simbolo. Amore e odio. Sentimenti e relazioni. E purtroppo anche in questo abbiamo alleggerito e impoverito di troppo le nostre capacità di discernimento e credo fermamente nella necessità di tornare a essere esseri umani veri, a discapito della tecnologia che ci sta uccidendo.

M.: Ultimamente mi piace riflettere su come un luogo, e suonare in un luogo preciso, può influire sulla musica, riverberando le sue vibrazioni. Mi piace anche pensare a come la tecnologia e il nostro vivere virtuale possa influire creativamente o criticamente sulla musica.

P.: Credo che i luoghi siano fondamentali e che oggi come oggi la mancanza di cura e di attenzione per la stragrande maggioranza dei luoghi adibiti alla musica sia uno dei temi, ma conservo la speranza di poterli trasformare con quello che facciamo e con quello che siamo. Io credo che chiunque entri in un campo lo modifichi con la sua entrata, non è solo la fisica quantistica a parlare. Non è egocentrismo. O narcisismo. È la realtà di tutti i giorni. Perché è quello che sperimento da sempre. Sto attento a quello che accade sempre e mi sforzo di farlo. E credo che ogni volta ci siano in atto, soprattutto in luoghi chiusi e “controllati” creati ad hoc come il palcoscenico o la stanza di analisi, dinamiche serie, sacre e profonde, e che ogni volta devono presentarsi determinate caratteristiche, delle regole, affinché il rito funzioni. Purtroppo ci sono elementi che non possiamo gestire da soli noi che facciamo il nostro, da questa parte del palco, ma tutto dovrebbe partire e coinvolgere anche chi gestisce gli spazi… che dovrebbe lavorare in maniera pedagogica col suo pubblico, costruire un linguaggio nel tempo, una rete nella quale poi le cose possono davvero accadere, grazie a chi ascolta e chi ha voglia di scambiare. Certo se i soldi sono l’unica discriminante di tutto il meccanismo, il processo, che è già molto lento in sé, si blocca e devia su aspetti controproducenti. Lo scarico di responsabilità al quale assistiamo ogni giorno per me è sintomatico dello stato del Paese e delle cose della musica. È sempre colpa di qualcun altro, mai nostra. Io mi sento figlio di un’altra prospettiva che magari mi rende meno commerciale e appetibile ma vero e puro. 

M.: Io adoro suonare in contesti piccoli, anche se non mi è successo così spesso. È una dimensione, quella dell’house concert, che vorrei abbracciare di più. Io vedo dalla tua pagina Instagram che è diventato un luogo che apprezzi molto e ne fai grande “uso”, se così si può dire. Dove sta la confort zone e dove sta invece la sfida in posti di questo tipo?”

P.: Parliamo di quello che c’è di vivo. La questione della comfort zone – che di suo mi fa già incazzare – è assurda. La mia comfort zone è, volendo, suonare completamente acustico. Cosa che col concetto di comfort devo ancora capire dove stia. Nessuno di noi fa questa cosa nel nome di una comfort zone. Se lo fa è perché mente a se stesso in quel momento e allora si sente e si stufa da solo. La cosa non vedo come possa riguardarci, proprio perché vivo con l’ansia della perfezione e del crearmi degli ostacoli sempre e comunque più alti. Mi alzo alle sei del mattino e inizio a concentrarmi e a lavorare sulle immagini dello spettacolo per la sera stessa appena sveglio o sulla soglia del risveglio, per una questione di tecnica. Senza considerare che inizio a prefigurarmi la serata una settimana o dieci giorni almeno prima del concerto. Ogni giorno ripeto buona parte dei brani (selezionandone alcuni ed escludendone altri solo per una questione di energia e di memoria) e del percorso che mi porta al top della mia apertura psicofisica per poter lavorare e salire sul palco al meglio. Ho un mio training personale per questo. Uno poi fa quello che può e suona dove gli viene permesso di farlo. Se mi concedessero il lusso di suonare altrove lo farei ben volentieri. Ma per suonare in locali grandi ho bisogno di veder espandersi il suono con dei musicisti che costano e nessuno mi paga abbastanza per potermelo permettere davvero, con un senso e un valore e rispetto per tutti quanti i coinvolti, a cominciare da me. La soglia la stabilisco io, in base a un mio senso di giustizia, non sindacabile, fino a quando l’unico a prendersi delle responsabilità economiche reali sul progetto sono e rimango io. Troppo facile parlare quando non si conoscono i dettagli di un sistema al collasso. Poi ognuno di noi applica il suo metro a quello che ha davanti ed è evidente come e quanto uno spazio piccolo, chiuso e raccolto sia ideale per una preghiera. Quello che faccio è più simile a un’esperienza estatica di fronte a venti, trenta persone, concentrate sulla stessa cosa: è una botta esistenziale, e il luogo deputato è e deve essere ideale. Quest’estate ho suonato davanti a 400 persone, all’aperto, ma ben educate da 5 anni di festival poetico e sensibile, da persone che curano ogni dettaglio dell’essere dell’evento stesso. Ebbene, a un certo punto, dopo un’ora di concerto, ho potuto staccare l’amplificazione e suonare due brani in acustico e senza microfono davanti a tutti, per intenderci, nel silenzio e nel rispetto e nella partecipazione più totale e magica di tutti. A questo aspiro. E questo, per poter accadere, deve essere coltivato e coccolato da tanti, non solo da me. Se il problema è vendere birre o far ballare la persone o vendere qualche cosa d’altro, stiamo parlando di un altro sport che non mi interessa e non fa al caso mio.

Due parole sulla grafica le facciamo? Perchè sia per “La mia falsa identità” che per “Acini”, l’ha curata Alessandro Adelio Rossi, che tra l’altro è un componente di T¥RSO, e che tra l’altro suonò anche nel mio disco del 2021 cucendomi addosso proprio l’ambiente sonoro che cercavo per sentirmi a mio agio con le mie canzoni; diciamo che se ne intende molto bene di paesaggi sonori, che per un cantautore come te sono di grande importanza.

P.: Alessandro è un amico, un uomo, spero di poterlo dire senza offendere nessuno, gli voglio bene, perché è pieno di cura e di attenzione per tutto quello che fa e che vende agli altri e per tante altre ragioni tra cui le sue capacità artistiche e tecniche. Si occupa delle mie copertine da tempo e abbiamo incrociato le chitarre qualche volta, cosa che si ripeterà neanche tra troppo tempo… e mi ascolta, mi sa ascoltare, e sappiamo costruire cose assieme. Questo fa si che io gli scriva o lo chiami con i miei intenti in mente e che, nel giro di qualche minuto, le cose inizino a materializzarsi. È una questione di fiducia, l’Arte. Averne e darne. Concederne. E con lui il rapporto tra creazione e realtà è pieno di rispetto, cosa che non capita spesso. Le falle temporali in ambito creativo, quando sei nel flusso, uccidono tutto e tutti. Io vivo nel flusso. Sto imparando a capire che non vale per tutti la stessa cosa e devo soltanto imparare ancora a difendermi da chi non la vede così e scegliere la mia squadra in funzione di questo. Perché le energie sono quello che sono e non si possono buttare via.  

M.: So che hai anche pubblicato un vinile in edizione limitata del tuo ultimo lavoro. In cosa differisce rispetto alla versione cd, oltre che per la bellezza estetica del formato? A proposito, non so se sei un amante del vinile, ma se vuoi quando ripassi da Bergamo ci possiamo perdere ad ascoltare sul mio piatto un primo Bert Jansch (mi scuso con i lettori, spero ci possano capire).

P.: Abbiamo dovuto fare una selezione virtuosa dei brani. Come se nascesse un nuovo prodotto ma con esigenze temporali ed estetiche definite e precise, vincolanti. Raffaele ha fatto l’ennesimo piccolo capolavoro sonoro. Cosa che non è stata facilissima, perché il materiale era cospicuo e con un peso specifico di tutto riguardo, che non ammetteva tagli, almeno dal mio punto di vista. Avremmo dovuto realizzare tre LP minimo, con dei costi troppo alti, e siamo scesi a uno come come promesso artistico. Detto ciò spero di esserci riuscito, assieme a chi mi ha aiutato, che ringrazio come sempre. Il valore estetico e materiale della manovra è un premio alla nostra perseveranza e alla qualità di quanto fatto fino a ora. Non abbiamo lesinato su nulla, nemmeno sulla nostra fatica per poter tenere insieme i pezzi di questo puzzle fuori dal tempo e dal senso del mercato. Spero davvero che possa essere capito, nei dettagli, da tanti altri. Per quanto attiene Bert Jansch… quando vuoi. Amo anche John Renbourn, suo compagno d’avventure, che a settant’anni rincorreva ancora il suo sogno, con la sua chitarra e a bordo del suo van, in solitudine.  Non c’è più neanche lui. È di là che ci ascolta.

M.: Ci sono salito per un paio di minuti sul van di John Renborn e direi che sono bastati per capire che entravi in un’altra dimensione, quella che racconti tu, l’identità, il sogno, la passione.