Ci sono almeno tre aspetti molto importanti in questo nuovo libro di Sandro Campani, “Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello)” (Einaudi). Tre aspetti che ne fanno una pubblicazione preziosa, forse la migliore fra le sei che Sandro ha dato alle stampe fino ad oggi – ma lui, che mi è amico e “avversario” in tanti contenziosi culturali, si schermirà quando leggerà le mie parole, nonostante io pensi e ribadisca qui che lui è fra i migliori scrittori italiani che abbiamo.
Il primo aspetto importante è che fino dalle pagine iniziali “Alzarsi presto” sembra un parente aggiornato delle “Cròniche epafàniche” di Francesco Guccini. Là il cantautore, in un impasto d’italiano sgrossato dalle sue origini geografiche misto al dialetto di una Pàvana raccontata fra mitologie, ricordi, nostalgie, scriveva quello che per me è uno dei cento libri del Novecento da leggere.
Qui Campani fa una cosa per certi versi simile: piega la lingua alla cadenza della sua terra, l’Emilia montanara, e la farcisce di parole materiali e terrigne. Una lingua che è precisa nei nomi degli alberi, dei funghi, dei tartufi, di animali e luoghi. Una lingua che odora, che si tocca, che lascia alla lettura una sana fatica da crinale, portandoti a cavare le parole come i funghi – mentre un bellissimo Glossario, non a caso definito sentimentale, in fondo al libro aiuta chi come me è lontano dalla montagna e da un mondo che per Sandro è stato da sempre il suo mondo (e difatti questo è il libro più suo). Un mondo che per Guccini, forse non del tutto lucidamente o forse per disperazione da (lenta) scomparsa, era mitologia; invece per Sandro è nostalgia, ma anche altro, di cui però dirò più avanti.
Dal primo aspetto deriva il secondo: in questo periodo celebriamo i cento anni dalla nascita di Italo Calvino. Un giorno, se non mi ricordo male era il 1981, gli venne chiesto cosa avremmo dovuto portare nel duemila. Lui rispose che, oltre a un bel po’ di poesie a memoria (e Campani si è portato in questo secolo tutto un repertorio botanico e fungivo, mica poco) avremmo dovuto lottare contro l’astrattezza delle parole. Sandro qui fa proprio questo: le sue parole sono concrete, si tengono in mano, a volte graffiano, a volte accarezzano, spesso involvono in una rigorosa prosa vivente e vissuta, che ha un non-detto di suolo, di foglia e di cielo. Un qualcosa che non lascia spazio ad ambiguità – e sulle ambiguità attenzione che si fanno i morti – semmai ad evocazioni, più spesso a memorie e, come già detto, nostalgie di un mondo che sta scomparendo. In altre parole è quello sradicamento che torna sempre nei romanzi di Sandro e con cui a questo giro sembra quasi riuscire a fare i conti.
Infine, non potrebbe esistere un terzo aspetto, diciamo così, generativo, se non ci fossero i primi due che ho provato brevemente a descrivere. Non so quanto consapevolmente, non so se con tale intenzione, ma Sandro Campani in questo libro traccia in modo spurio e contrastante quella che Donna Haraway chiama in “Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto” parentela, kin. Che non è solo la parentela stringente e affettuosa fra Sandro e suo fratello Pietro, cercatore di funghi e tartufi che di questa attività ha fatto un lavoro. O quella non meno necessaria con il papà. Ma è anche la parentela stretta – e fatta di rispetto, delusioni, rabbie, ma anche di gioie e incantamenti – con le piante, la terra, le acque più o meno torbide, i funghi, i falsipiani e le salite, il bosco (“Il bosco non sta lì per salvarci; non sta lì per controbilanciare la nostra perdizione e il nostro essere votati al demonio della vita accelerata”) e tutto ciò che, in un gesto autobiografico di intensità matura, ha formato lui, uomo e scrittore.
È di queste parentele che abbiamo bisogno e che dobbiamo cercare. Anche soffrendo, anche cadendo nella malinconia e nel dolore, come succede in certi passaggi di questo libro. “Per vivere bene e morire bene”, come dice Haraway. E se questo non è necessariamente il compito della letteratura nel contemporaneo – ma qui narrativamente e sentimentalmente lo è, eccome – quello di una lingua strappata alle codificazioni della tecnica e del liberismo, ovvero una lingua omologata e vuota che non dice più niente e quindi può dire il tutto e il contrario di tutto (basta seguire il dibattito mediatico di questi mesi di guerre), è assolutamente il compito della letteratura.
Ma sarebbe facile risolvere la questione con un’estetizzazione del linguaggio (ri)corrente. Non è questa la strada. Se immaginassimo questa lingua-mostro come la postura obbligata del tardo capitalismo (seduti davanti al pc per otto ore al giorno quando va bene), allora questo libro diventerebbe uno strattone alle nostre vite inerziali e anestetizzate per “Alzarsi presto” e andare nel nostro bosco, a cercare i nostri funghi e i nostri tartufi. Anche se piove, se fa freddo ed è tutto fango, e sterpi, e pietre scivolose.
Qualcuno ha scritto di questo libro che sa parlare al cuore. Nella semplicità di quest’affermazione c’è della verità: Sandro commuove e fa sorridere, riporta a misurarti come persona. Ma in quest’opera di faggi, russole, forasacchi, querce, gaitelli, prugnoli, carpini, ofioliti, pasture (e potrei andare avanti ancora per molto con queste parole che è solo un godimento scriverle) io me lo immagino come uno scrittore-fungo, come uno scrittore-gerla. Che lascia le sue spore alla terra, al vento e ci allunga le sue micorrize. Magari qualcuno vuole prendere ciò che ne verrà.
“Andare a funghi vuol dire spesso camminare in posti splendidi, in un sottobosco che invoglia; invece l’ambiente del [tartufo] bianco è quello più scassato in cui girare, e se non fosse per il tartufo è probabile che per nessun motivo mi andrei a infilare là in mezzo. Comincia ad avere il suo fascino dopo che ho preso a farci l’occhio, e a immaginare, mentre mi sento al riparo dal mondo protetto nell’ombra quando tutt’intorno è abbaglio – e sentendo il rumore dei trattori e delle zappatrici, in giro, è bello sapere che loro non sospettano dove siamo nascosti, sotto una volta insana ma anche avventurosa, com’era per le capanne di frasche che con mio fratello facevo da bambino; e l’odore tannico e amaro dei pioppi mi piace, mi è sempre piaciuto, quanto la loro uggia”.
Luca Barachetti
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