“Un invisibile già noto” è il titolo della mostra di opere su lamiera che Enrico Ruggeri Zambaiti porterà alla libreria Incrocio Quarenghi domenica 21 aprile per T¥RSO #9 (dalle ore 11: oltre a lui il concerto di Alessandro Adelio Rossi e Denis Guerini e il reading di Anna Lamberti Bocconi, a questo link tutti i dettagli).
Sarà la prima vera mostra di Enrico Ruggeri Zambaiti, che per l’occasione dialogherà con Luca Barachetti. Qui i due hanno già cominciato a confrontarsi su una serie di opere dai molteplici aspetti.
LB: Quando realizzammo insieme il disco dei Barachetti / Ruggeri una delle cose che mi colpì molto di te era la tua capacità di utilizzare le mani per costruire strumenti o simil tali riuscendo a ottenere dall’oggetto che stavi manipolando un suono preciso che avevi in mente. Ma la cosa bella, direi eccezionale, è che spesso riuscivi, attraverso la costruzione di uno strumento, a ottenere un suono che avevo in mente io. Quando sei passato dal suono alle figure, questa tua vicinanza strettissima fra mani e cervello l’hai trovata subito o sei dovuto andare in qualche modo a cercarla?
ER: Sono sempre stato un autarchico e questo nel tempo mi ha costretto a trovare sempre soluzioni pratiche e funzionali in tempi relativamente brevi. Certo questo non è necessariamente il migliore dei percorsi, se avessi avuto una preparazione accademica e una conoscenza più approfondita delle miriadi di tecniche pittoriche (e non pittoriche) esistenti forse mi sarei risparmiato tanti esperimenti che poi ho disconosciuto. Ma appunto: sono un autarchico e continuo così. La mia accademia, per così dire, è stata la mia attività lavorativa dove in una prima fase (20 anni circa) ho disegnato giornalmente e costantemente con una media di 2-3 disegni al giorno. Questo ha creato una certa sicurezza nel gesto che poi si è trasposta nelle mie emanazioni artistiche.
LB: Questa cosa si intuisce dalla metodicità con cui lavori e in certe opere anche dagli esiti, queste ripetizioni di righe, di onde. Si sente in modo molto forte il gesto in quello che fai. Immagino però che sia anche importante il cervello, intendo la concentrazione. Come mi ha spiegato Virgilio Sieni nei laboratori che ho fatto con lui: “stare dentro al gesto”.
ER: C’è tanto pensiero quanta istintività. In molti casi tutto parte da un singolo gesto che poi decido di reiterare in modo rigoroso. Io però, per quanto possa essere concentrato, non sono una macchina (a controllo numerico) e voglio sempre farmi sorprendere dalla materia e dall’inatteso. Mentre lavoro sulle lamiere c’è una discreta quantità di variabili e di eventi imprevedibili che si succedono e in una certa misura cerco di controllare. Il dogma è quello che l’inesattezza espressa in regola diventa segno della logica vigente.
LB: Questo è interessante: l’evento imprevedibile, l’”errore”, che genera qualcosa d’altro, di inatteso. Come sai, io suono la carriola, in qualche modo tutti e due abbiamo a che fare con la materia. Il mio primo approccio serio, cioè quando ho smesso di percuoterla selvaggiamente nei Bancale e invece ho provato a cercare un suono, che poi non è uno solo, ma sono tanti, oserei direi che tendono a più infinito, non è stato facile. Quando si ha a che fare con un certo tipo di materiale, come la lamiera arrugginita e passata in cantiere di una carriola, o la lamiera “pulita” su cui tu operi, il primo approccio non è semplice. Bisogna “comprendere” la materia che si ha davanti e rispettarla.
ER: L’errore va accolto e male che vada sarà il trampolino per un disastro che magari non ci serve oggi ma domani chissà. Sicuramente la tua carriola ha tantissime possibilità, l’unico limite è la voglia di sperimentarci sopra. Che poi è un po’ quello che faccio io con le mie “righine”. Sempre quelle ma… ogni volta trasposte in un nuovo territorio, anche solo per “vedere cosa succede”.
LB: Quello del “vedere cosa succede” ho scoperto essere un metodo di lavoro molto bello. Perché ha qualcosa di trascendentale in una misura brevilinea, in altre parole è un andare oltre il qui e ora, ma non troppo oltre, giusto lì. È una piccola forma di utopia sconosciuta. Tutto questo ha un qualcosa di religioso, e infatti tu dici sempre che per le tue opere ti piace la parola “ieratiche”, cioè, citando dal vocabolario, “improntato a un senso grave e solenne di sacralità o devozione”.
ER: Per me la tua utopia sconosciuta assomiglia anche al più infantile e puro: “vedere come è fatto dentro”. Anche a costo di rompere tutto. Questa purezza rende più dinamico il processo di ricerca e, come dici spesso, lo rende generativo. Poi come sai io sono un tipo abbastanza tecnico e quindi poi imbriglio tutto nella mia severità di fondo. La stessa severità che poi, spesso non intenzionalmente, ritrovo ad opera finita. Mi piace infondere un senso di atemporalità solenne che non sia dissociata dal contemporaneo, una sospensione che appunto tende alla ieraticità.
LB: Infatti da sempre, già da quando non operavi sulla lamiera ma sulla carta, ti ho detto che le tue opere risentono tantissimo del contemporaneo, ma allo stesso tempo dissentono da esso nel loro essere materia viva, in continua trasformazione – e in questo senso credo che le opere esposte ad agenti chimici e intemperie siano una sorta di zenit di tutto questo. Qualche tempo fa ho letto una poesia di una poetessa, che si chiama Sole Fontanella, che ad un certo punto dice che la Storia è “un acufene rimosso”. Invece in molte tue opere, penso a “Paesaggio di linee I e II” o a “Vulnerato I e II” (che riguarda proprio quello zenit di cui dicevo prima), questo acufene c’è e irrompe nell’immobilità del presente. Ovviamente non mi riferisco alla Storia dei libri – che sta andando avanti eccome, smentendo Fukuyama, e sta andando avanti male – ma la Storia dell’essere umano, del singolo, come della specie. In una parola io credo che le tue opere riguardino la morte, non solo quella fisica, ma anche quella esistenziale, psicologica. E che siano un tentativo faticoso e potente di redimerla riconfermandola.
ER: In queste ultime settimane, mentre pensavo a un modo per racchiudere in un unico tema le nove lamiere che esporrò, ho pensato al trauma e all’universalità di questo tema. A partire da quando veniamo alla luce: incontriamo un trauma. Uno bello grosso, solo che non ne serbiamo il ricordo. Ho cominciato a pensare che tutte queste lamiere, così maltrattate (eh sì perché serve anche tanta forza fisica e le frese non scherzano mica) serbavano nei loro panneggi un lungo e profondo trauma da elaborare. Io l’ho solo portato alla luce. “L’immobilità del presente” è proprio come certi psicologici descrivono la condizione traumatica. Un eterno fermo-immagine dove il passato diventa presente e il futuro perde significato, eccetto quello di una ripetizione infinita del presente. Un presente malato che rimane comunque al cospetto di una finitudine su cui non sappiamo più edificare senso.
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